C’è stato un tempo in cui bastava dire “vacanza” per evocare un immaginario preciso: il mare a luglio, la montagna a ferragosto, i treni notturni, le case in affitto per un mese intero. Era la stagione della villeggiatura. Lenta, prevedibile, eppure piena di rituali affettivi.
Per me e mia sorella, villeggiatura voleva dire Prato Nevoso. Una località nata per lo sci che, d’estate, sembrava dimenticata. C’erano pochi stimoli, poche distrazioni. Ma c’era uno spazio nuovo: quello del tempo vuoto, delle routine inventate, delle estati che sembravano durare per sempre. Ricordo mia nonna – la Brigadiera, la chiamavamo – che ci guardava da lontano mentre esploravamo il nulla. Oggi, a distanza di anni, mi rendo conto che quel tempo povero di stimoli era ricchissimo di senso. Solo che allora non lo sapevamo.
Un tempo i viaggi si raccontavano con poche parole: “c’era silenzio”, “si mangiava bene”, “abbiamo visto le stelle”. Oggi invece li confezioniamo con formule che sembrano pensate per un algoritmo: “esperienza immersiva”, “ritiro autentico”, “turismo lento”. Parole eleganti, certo ma cosa raccontano davvero di noi e di un luogo?
Le parole giuste. O solo comode?
Le parole che usiamo per descrivere i viaggi suonano bene, ma spesso sembrano fatte con lo stampino: “esperienziale”, “autentico”, “slow”, “immersione”, “fuori dai soliti circuiti”. Sono formule rassicuranti, perché promettono profondità – ma raramente raccontano qualcosa di preciso. Le scegliamo perché sono ovunque: nei post, nei cataloghi, nei reel. Parole che ci arrivano addosso più che nascere da ciò che sentiamo davvero. Parole comode, che ci evitano il confronto con la complessità di un luogo, o con la verità – magari scomoda – del nostro modo di stare nel mondo.
E così finiamo per raccontare i posti come ci si aspetta che siano, non come li abbiamo vissuti. Come se ci fosse un copione da rispettare. Come se il modo giusto per parlare di un luogo fosse già stato scritto da qualcun altro. Ma un viaggio non è mai universale. È sempre personale. E anche quando due persone vanno nello stesso posto, ci vanno con due desideri diversi, due mancanze diverse, due occhi diversi.
Prendiamo Genova, la mia città. C’è chi la trova respingente, disordinata, scura. Chi invece ci vede una bellezza ruvida, stratificata, mai addomesticata. Io la conosco abbastanza da sapere che ha ragione chi resta – e anche chi scappa (ma poi vuole ritornare). È questo che rende ogni racconto diverso. Non il luogo, ma la relazione che abbiamo con lui.
“Ma se ghe pensu allôa mi veddo o mâ, veddo i mæ monti e a ciassa da Nûnsiâ…”
(Ma se ci penso allora vedo il mare, vedo i miei monti e piazza della Nunziata…)
L’inquinamento narrativo
In un turismo che si dichiara responsabile e sostenibile, anche le parole dovrebbero esserlo.
Perché raccontare un luogo non è un gesto neutro. Le parole che scegliamo lo definiscono, lo orientano, a volte lo semplificano fino a svuotarlo. Ripetere le stesse formule, usare gli stessi aggettivi per ogni destinazione – “autentico”, “segreto”, “fuori dal tempo” – trasforma i luoghi in prodotti replicabili, consumabili, prevedibili. E questo è una forma sottile di impatto: non ambientale, ma narrativo.
Un racconto ripetuto, stereotipato, contribuisce alla saturazione di un luogo tanto quanto il traffico, i rifiuti o le file davanti alle stesse tre cose da vedere. Ogni parola è un invito. A partire, a fermarsi, a fotografare. Ed è proprio per questo che serve un linguaggio nuovo, più onesto, più relazionale, più nostro.
Un nuovo vocabolario possibile
Io ho iniziato da una parola sola: intimo. L’ho scelta per sostituire “autentico”. Mi sembrava più sincera, meno assoluta, più umana.
Un viaggio può essere intimo anche se non è silenzioso.
Un luogo può esserlo se ci invita ad abbassare il volume interno.
Una narrazione può esserlo se ci mette in ascolto.
È una cosa che sto provando a fare. Ogni tanto mi fermo prima di scrivere. Se la parola che arriva è troppo liscia, troppo comoda — come “autentico”, che anch’io ho usato tante volte — cerco di lasciarla andare. Non perché sia una parola sbagliata. Ma perché quando una parola viene usata troppo, ovunque, da tutti — rischia di perdere la sua forza, di diventare sfondo. E allora dobbiamo inventarcene una nuova. Ma forse non servono parole nuove. Serve tornare a usare bene quelle che abbiamo.
Piccoli esercizi di disorientamento
Ogni tanto mi accorgo che sto per scrivere “autentico”. Mi fermo. Respiro. Cambio “tipico” con qualcosa che ho davvero visto e che conosco. Sostituisco “esperienza” con il nome di un gesto. Cancello “fuori dai soliti circuiti” (spoiler: non lo è più). Riscrivo come se parlassi a una vecchia amica, non a TripAdvisor. E quando non so cosa dire, sto zitta. A volte è più onesto. Funziona? Non sempre. Ma almeno non mi sento in copia carbone.
E tu, quali parole usi?
Se anche tu senti che certe parole non ti bastano più. Se ti accorgi che raccontare un luogo è più difficile — e più prezioso — di quanto sembra. Se ogni tanto ti viene voglia di stare in silenzio, o di dire le cose in un altro modo… Io ne scrivo, ogni mese, in Un’altra strada. E ogni settimana, con Stradine, mando un piccolo pensiero del lunedì: una parola, una domanda, una strada fuori mappa.
Foto di Fratto Kenchiku su Unsplash.